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Quando i detective si siedono a tavola – Prima parte con Maigret

«I due uomini avevano mangiato zuppa di cipolle gratinate e il cameriere, dopo aver posato davanti a loro un abbondantissimo piatto di crauti e salsicce, portava già altri due bicchieri di birra. Il vecchio non perdeva un boccone, né un odore, né un secondo di quell’ora unica.(…) La zuppa di cipolle, i crauti gli davano letteralmente l’estasi».

Questo brano, grazie al quale sembra di assistere di persona alla scena dei due commensali che gustano un abbondante piatto di choucroute garnie, la celebre specialità alsaziana, è tratto dal romanzo “Maigret e l’affare Picpus” di Georges Simenon, pubblicato nel 1944.

Ma quando uscì in libreria era già da tredici anni che lo scrittore di origine belga deliziava i lettori francesi non soltanto con le avventure del commissario più famoso della letteratura poliziesca mondiale, ma anche con una dettagliata e approfondita rassegna delle prelibatezze della cucina popolare d’Oltralpe.

Dalla sua comparsa nel romanzo “Maigret e il lettone” del 1931, infatti, il celebre commissario parigino non lascia passare un’inchiesta senza accomodarsi al bancone di un bistrot di periferia, al tavolo di una trattoria lungo la Senna, nella sala di un vecchio ristorante della provincia profonda.

Oppure facendosi largo tra la folla di colleghi che pranzano alla celebre Brasserie Dauphine, a pochi metri dagli uffici della polizia giudiziaria al Quai des Orfèvres. O ancora gustando nella tranquillità domestica i manicaretti preparati dalla devota e paziente signora Maigret.

Simenon non è stato il primo autore di gialli a inserire il cibo, nelle sue mille declinazioni, all’interno di una narrazione poliziesca, ma di certo è stato lo scrittore che ha cessato di considerarlo un elemento di contorno, come la marca di un’automobile o il colore di una cravatta, e anzi gli ha fatto assumere un ruolo di primo piano, usandolo per descrivere i costumi di un popolo e di una città e per interpretare la filosofia di vita un personaggio di carta.

Perché da quasi cent’anni le indagini poliziesche, le storie nere e gli intrecci gialli hanno bisogno non soltanto di un morto e di un investigatore, ma anche di uno scenario nel quale non può mancare una tavola apparecchiata, un piatto popolare oppure elaborato, del buon vino da gustare da soli o in compagnia?

Maurizio De Giovanni, creatore dei celebri romanzi del commissario Ricciardi, dei Bastardi di Pizzofalcone e negli ultimi anni della fortunata serie dell’ex agente segreto Sara Morozzi, un’idea se l’è fatta.

E la spiega così:

«Un romanzo è un viaggio. Deve portare il lettore da un’altra parte, e deve farlo prima possibile.

Non è come un film, o come al teatro, quando non si perde la consapevolezza di essere uno spettatore che guarda un attore mentre interpreta un personaggio: un lettore diventa il personaggio, entra in lui, e per immedesimarsi deve sentirne le sensazioni.

Per questo la lettura dev’essere il più possibile un’esperienza sensoriale: l’immaginazione dev’essere stimolata, per assecondare i sensi. Questo è tanto più vero in un romanzo nero, quando la storia deve assorbire e preparare i sentimenti deviati che animano il crimine, perché siano compresi e perfino in certo modo condivisi.

Il cibo ha perciò un ruolo fondamentale nei nostri racconti, e in particolare nei miei perché sono, tutti, ambientati in un luogo che fa del mangiare una caratteristica peculiare dell’ambiente. Perciò di volta in volta gli alimenti, gli ingredienti, il profumo o il sapore, ma anche l’atto stesso del cucinare diventano l’occasione per prendere per mano il lettore e portarlo nell’epoca e nel posto che valgono la storia.

Che siano gli anni Trenta, con povertà e miseria che riempivano la tavola di poco e che avevano bisogno di inventiva e lunghe lavorazioni, o la strada contemporanea che corre e che non ha tempo, costringendo a ingoiare in fretta e all’impiedi qualcosa di fritto e unto, la mia città, Napoli, parla attraverso il cibo. E se vuoi raccontarla, devi guardarla mangiare».

Anche Simenon la pensava così, infatti nei suoi libri, soprattutto nella monumentale serie Maigret (76 romanzi!), dà libero sfogo alle passioni culinarie del commissario, che poi erano anche le sue.

Ed ecco allora che sfogliando le pagine vediamo il massiccio poliziotto cimentarsi con cassoulet d’oca o di agnello, tripes à la mode de Caen, soupe d’oignon, blanquette de veau (cioè spezzatino di vitello) e molte altre specialità da bistrot, oppure, a seconda di dove lo conducano le indagini, sgombri e triglie del Mediterraneo al forno o cozze marinate con patatine fritte; sempreché non gli tocchi far tardi in ufficio per un interrogatorio ed ecco allora arrivare i mitici panini imbottiti della Brasserie Dauphine, accompagnati  da un bel boccale di birra bionda. Anche se alla fine Maigret preferisce i piatti semplici preparati dalla moglie, primo fra tutto il coq au vin, il galletto al vino, da gustare preferibilmente un bianco della Loira.

L’elenco delle pietanze è così lungo e dettagliato che c’è stato chi si è preso la briga di scriverci un libro sopra, ad esempio “A tavola con Maigret, intrighi e intingoli” di Guido Guidi Guerrera (edizioni Il Leone Verde), oppure “A cena con Simenon e il commissario Maigret” di Robert J. Courtine (Guido Tommasi Editore).

Ed anche questo nostro viaggio gastronomico nel mondo dei gialli non si concluderà qui, ma in un prossimo articolo.

Giorgio Ballario

Redazione Sfumaturedigiallo.it

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