Ernest Hamilton, un pittore inglese di mezz’età, da tempo emigrato in Sud Africa, cerca in una luminosa Roma primaverile nuovi stimoli per rinverdire un’ispirazione che sembra smarrita e quasi senza rendersene conto rimane invischiato in una misteriosa congiura che si consuma tra le mura del Vaticano.
L’obiettivo della macchinazione non è il Papa in carica, ormai vicinissimo alla morte, ma il suo probabile successore, un cardinale africano dalle idee fin troppo progressiste che immagina persino di trasferire la sede del Vicario di Cristo da San Pietro alla Costa d’Avorio.
A fare da anello di congiunzione tra l’incerta e titubante indagine del pittore e l’organizzazione segreta che ha ordito il complotto, è un’enigmatica restauratrice romana specializzata nel risanamento di dipinti sacri, della quale l’artista inglese finisce per innamorarsi.
A completare lo scenario, oltre al rapimento del porporato africano, sullo sfondo c’è un misterioso e profetico quadro ottocentesco che raffigura la distruzione della basilica di San Pietro e quindi la fine della Chiesa cattolica.
Sono questi gli elementi principali che compongono la trama del thriller “Blu di Prussia e rosso porpora” (Salani, 327 pagine), il nuovo romanzo di Giovanni Ferrero.
Nel risvolto di copertina l’autore, con molto understatement, dichiara di aver studiato Scienze alimentari e marketing negli Stati Uniti e di gestire l’azienda di famiglia.
Niente di strano, se non fosse che “l’azienda di famiglia” è la più importante industria dolciaria italiana, un colosso conosciuto in tutto il mondo, presente con i suoi prodotti in ogni angolo della terra.
E che l’autore è descritto dalle riviste specializzate come «l’uomo più ricco d’Italia».
Insomma, l’uscita di “Blu di Prussia e rosso porpora” è uno di quei rari casi editoriali in cui, a livello mediatico, il nome dell’autore prevale inevitabilmente sul contenuto del romanzo. Ed è un peccato perché lo stesso Ferrero, nelle pagine del libro, mostra chiaramente l’intenzione di volersi spogliare delle vesti quotidiane (e reali) per indossare i panni dell’alter ego Ernest, figura che appare distante anni luce dal mondo dell’industria, della produttività, del marketing.
In una rara intervista (l’intera famiglia, da sempre, preferisce mantenere una certa riservatezza), Giovanni Ferrero aveva confessato di scrivere nei pochi momenti liberi e di considerare la scrittura di un romanzo come un personalissimo “buen retiro”, una specie di vita alternativa a quella reale. Che poi è spesso l’obiettivo di ogni scrittore, così come dei lettori.
Come sosteneva Mark Twain:
«I libri sono per la gente che spera di essere altrove»,
Non sorprende, allora, che in una spy-story a tinte fosche che scandaglia gli aspetti più oscuri del millenario potere della Chiesa (e di conseguenza anche dell’animo umano), le pagine più felici siano proprio quelle che Hamilton/Ferrero riserva alle descrizioni e considerazioni del protagonista sull’arte, in particolare su pittura e scultura.
Non è dato sapere se Giovanni Ferrero, oltre a scrivere romanzi, si dedichi anche alla pittura, di certo mostra grande competenza in materia di uso dei colori e tecniche pittoriche, oltre a una non comune sensibilità sul tema della luce e della funzione dell’arte, che permette di:
«scorgere il bello dietro la facciata sovente desolante della realtà con la quale ci confrontiamo ogni giorno».
Attraverso parole e gesti di Ernest Hamilton, Ferrero rivendica anche un certo gusto nel concedersi piccoli piaceri da flâneur d’altri tempi: girovagare senza meta per le piazze di Roma (città che l’autore dimostra di conoscere molto bene), sorseggiare un bicchiere di vino bianco davanti all’imponente sagoma del Pantheon, gustare senza fretta l’aroma di un sigaro cubano, osservare la luce che si riflette sulle acque del Tevere.
Inusitati momenti di otium per un indaffarato capitano d’industria, ma che rischiano di diventare rari anche per le persone più normali, assorbite da un’esistenza sempre più frenetica e virtuale.
Nelle ultime pagine, con un finale a dire il vero un po’ sbrigativo, il rebus della congiura contro il cardinale “terzomondista” avrà una soluzione, ma non per questo c’è da aspettarsi un lieto fine.
«Quella storia mi aveva davvero distrutto e il solo desiderio che avevo era fare ritorno al mio atelier»,
fa dire l’autore a Ernest al termine del romanzo.
«Era l’unico luogo in cui mi sentivo protetto perché dipingere mi permetteva di essere libero di esprimermi. La pittura mi aveva aiutato a superare le difficoltà della vita, le delusioni, la depressione. Era sempre stata una fedele compagna di viaggio, un balsamo per le ferite».
La bellezza salverà il mondo, scriveva Dostoevskij. Di sicuro, sembra suggerire Ferrero, può salvare i singoli esseri umani.
Giorgio Ballario